«La parola femminicidio non indica il sesso della morta. Indica il motivo per cui è stata uccisa. Una donna uccisa durante una rapina non è un femminicidio. Sono femminicidi le donne uccise perché si rifiutavano di comportarsi secondo le aspettative che gli uomini hanno delle donne. Dire omicidio ci dice solo che qualcuno è morto; dire femminicidio ci dice anche il perché».
È con questa citazione di Michela Murgia, attivista, scrittrice, opinionista e critica letteraria italiana, venuta a mancare nell’agosto del 2023, che vorrei introdurre l’argomento della violenza di genere, fenomeno diffuso in Italia e nel mondo, con numeri che vedono, secondo i dati Istat, una donna su tre coinvolta.
Con l’espressione violenza di genere si indicano tutte quelle forme di violenza da quella psicologica e fisica a quella sessuale, dagli atti persecutori del cosiddetto stalking, allo stupro, fino al femminicidio, che riguardano un vasto numero di persone discriminate in base al sesso. Quindi, è una violenza fondata sulle differenze sociali fra uomini e donne. Tali differenze si fondano sul fatto che tutti noi aderiamo con diversi gradi di libertà ai modelli del maschile e del femminile che la nostra cultura ci trasmette quotidianamente; così, hanno origine i costrutti sociali. Questi ultimi sono radicati al punto da essere dati per scontati e utilizzati come modelli organizzativi in società e in famiglia, divenendo delle mappe che guidano le scelte soggettive e danno forma ai desideri, scoraggiando talvolta la libera espressione. La valenza normativa dei modelli relativi ai ruoli di genere ha quindi delle inevitabili ricadute sulla libertà individuale e sulla definizione dell’altro/a come soggetto di valore o meno: in questo quadro simbolico ci viene facile comprendere come gli stereotipi di genere contribuiscono a definire ciò che è ritenuto plausibile o meno nel rapporto uomo – donna. In particolare, per meglio comprendere il fenomeno della violenza di genere, dobbiamo pensare come, in seguito al generarsi di questi stereotipi, l’identità maschile viene rappresentata come predatoria e rude, quindi più animale che umana, come se i comportamenti di quelli che compiono violenze nei confronti delle donne fossero tutto sommato spiegabili in termini di inclinazioni connaturate al maschile. L’identità femminile, al contrario, viene rappresentata come connotata da fragilità e bisogno di protezione, delicatezza, sensibilità, passività e naturalmente predisposta ai compiti di cura.
Questa premessa mi sembrava doverosa per meglio comprendere il terreno fertile su cui trova sviluppo il tema della violenza di genere, che ora cercheremo di inquadrare esaminando dapprima le diverse principali declinazioni di violenza, in seguito il ciclo che spesso caratterizza la dinamica relazionale che si instaura tra il maltrattante e la vittima. Infine, analizzeremo quali sono i più comuni vincoli che incastrano una donna all’interno di una relazione violenta.
Prima di analizzare nel dettaglio le diverse forme di violenza, è doveroso distinguere due termini spesso usati erroneamente come sinonimi: conflitto e violenza. Il primo è uno strumento attraverso cui si può giungere a soluzioni negoziate che non siano frutto della condiscendenza di una parte nei confronti dell’altra; per quanto aspro, non mette quindi in discussione la dignità dell’altro e si rimane su un piano di parità, ove ognuno esprime il proprio punto di vista. Nella violenza accade l’esatto contrario: la comunicazione è caratterizzata da prevaricazione di una parte sull’altra e c’è uno squilibrio di potere per il quale una delle due parti viene privata dei suoi strumenti fondamentali di libertà.
Forme di violenza maschile contro le donne
La prima forma di violenza maschile contro le donne che andremo ad inquadrare è la violenza fisica, che comprende qualsiasi atto guidato dall’intenzione di fare male o terrorizzare la vittima, attraverso l’impiego della forza corporea. Atti riconducibili alla violenza fisica possono essere: morsi, calci, pugni, spintonamenti, lancio di oggetti, soffocamento, minaccia/uso con arma da fuoco o da taglio per intimidire, colpire o bloccare la donna allo scopo di punirla, spaventarla o costringerla a fare qualcosa contro la sua volontà. L’espressione culminante di questa forma di violenza è il femminicidio.
Un altro tipo di violenza che può manifestarsi è quella economica: spesso tale violenza è difficile da registrare come tale, in quanto può sembrare scontato che la gestione delle finanze familiari spetti all’uomo. Se però attraverso forme di controllo più o meno diretto, viene limitata e/o impedita l’indipendenza economica della donna, è opportuno parlare di violenza. Degli esempi possono riguardare: il limitare o negare alla donna l’accesso alle finanze familiari, impedirle che possa avere denaro proprio del quale possa disporre autonomamente anche per obiettivi o necessità personali, come anche il vietare, ostacolare o il boicottare il lavoro fuori casa della donna.
La violenza psicologica, invece, racchiude ogni forma di abuso che lede l’identità della vittima attraverso l’impiego di parole e atteggiamenti finalizzati a manipolare, controllare e/o denigrare la partner in qualità di donna, moglie, madre, ecc., attaccandone l’autostima e la libertà di autodeterminazione. Rientra tra questa forma di violenza anche il considerare la donna come una proprietà, isolandola e trattandola come se fosse un oggetto o una schiava, l’oberarla di impegni e responsabilità, impedirle di praticare le credenze religiose nelle quali ella si rivede, costringendola a partecipare a culti o a rispettare precetti contro la sua volontà. Tra le forme di violenza psicologica, rientra anche il gaslighting, una forma di manipolazione cognitiva che insinua nella donna il dubbio sulla veridicità e affidabilità delle proprie percezioni e sulla lucidità dei propri ragionamenti, al punto da indurre in lei la convinzione di avere un disturbo mentale.
Lo stalking indica il comportamento controllante messo in atto dal persecutore, spesso trattasi dell’ex partner rifiutato dalla donna, nei confronti della vittima, generando in lei stati forte ansia e paura compromettendo, in tal modo, il normale svolgimento della vita quotidiana. Tra le condotte vessatorie troviamo: comunicazioni intrusive, reiterate e assillanti, invio indesiderato e frequente di fiori o altri doni, pedinamenti, appostamenti presso l’abitazione della donna o altri luoghi da lei frequentati, minacce telefoniche o anche tramite mail o sms direttamente alla vittima e/o alle persone a lei vicine.
Per violenza sessuale, infine, si intende ogni forma di coinvolgimento in attività sessuali senza che vi sia un reale e deliberato consenso. Pertanto, comprende qualsiasi atto sessuale o tentativo di atto sessuale, commenti o avances sessuali non desiderati, nei confronti di una persona contro la sua volontà e con l’uso della coercizione. Per coercizione si intendono, oltre quella fisica, le intimidazioni, le minacce o le situazioni nelle quali la persona non può dare un deliberato consenso perché, ad esempio, sotto l’effetto di sostanze o per disabilità psicofisica. Questa violenza può essere messa in atto da qualsiasi persona indipendentemente dalla relazione che ha con la vittima ma, all’interno del rapporto di coppia, il suo riconoscimento risulta difficile a causa di radicate convinzioni circa i “doveri coniugali”. A tal proposito, è opportuno evidenziare che, con lo sviluppo delle tecnologie, la violenza nell’ambito di una relazione può assumere nuove sfaccettature, come ad esempio nel caso della diffusione in rete di immagini intime della donna da parte del partner.
Le forme di violenza descritte hanno un comune denominatore e un nucleo centrale intorno a cui si muovono: in tutte, vi è un tentativo di esercitare controllo coercitivo attraverso un esercizio di potere, potenzialmente in grado di condizionare la vittima e danneggiarne l’autostima.
Ciclo della violenza
Quali sono le dinamiche che si sviluppano nella violenza di genere, all’interno della coppia? Walker, psicologa americana, è stata una delle prime ad introdurre il concetto di “ciclo della violenza”, che porta ad uno stato di assoggetto e manipolazione della donna. Questo modello ci aiuta a capire l’origine della violenza di genere identificando tre momenti: fase della tensione, fase dell’aggressione e luna di miele. Il modello di Walker mette in evidenza due fattori cruciali che spiegano perché sia difficile riconoscere precocemente la pericolosità della relazione, ovvero la gradualità e l’intermittenza dei comportamenti violenti. Il rapporto è di fatti caratterizzato da periodi partecipativi e affettuosi, ma è punteggiato da episodi di abuso emotivo o fisico che si manifestano progressivamente. Nel corso degli anni il modello di Walker è stato ampliato e riconcettualizzato, ma lo schema di base rivela ancora oggi la sua efficacia nello spiegare le dinamiche di un elevato numero di casi di violenza domestica.
Ora vedremo nel dettaglio le diverse fasi: alcune di queste possono durare giorni, mesi o periodi più lunghi ma quando la violenza si è radicata tutte possono alternarsi con estrema rapidità fino a sovrapporsi e confondersi. La luna di miele chiude il ciclo e ne precede il riavvio, ma le caratteristiche di questa fase sono anche quelle tipiche dell’esordio del rapporto, quindi la descriveremo per prima.
Le donne che hanno subito violenza spesso raccontano di una fase iniziata in modo idilliaco. L’uomo le trattava come principesse e si mostrava premuroso e rassicurante, capace di intuire i loro bisogni e rispondervi. In molti casi, si dipingeva come la vittima di un’infanzia infelice o di un divorzio sofferto, che aveva poi trovato in lei una nuova ragione di vita. Offriva regali, creava atmosfere romantiche e si mostrava empatico. Attraverso questo bombardamento d’amore, o come lo definisce la letteratura anglosassone “love bombing”, l’uomo ha guadagnato la fiducia della donna, che abbassa le sue difese in uno spazio relazionale che appare sicuro e affidabile.
In una seconda fase, quella della tensione, iniziano a comparire le prime increspature, caratterizzate da silenzi ostili, irritabilità, indifferenza, malumori apparentemente immotivati e comunicazioni sfuggenti. Il clima della relazione è permeato da una tensione emotiva veicolata soprattutto dal linguaggio non verbale. Se lei chiederà di parlarne, lui potrebbe rifiutare la comunicazione o ricondurre tutto a difficoltà transitorie dovute a cause esterne quali il lavoro o lo stress, oppure potrebbe invitarla a cercare in sé stessa le ragioni del problema. Durante tale fase possono già manifestarsi le prime violenze verbali, ma non è facile riconoscere in esse i campanelli d’allarme in quanto la vittima, trovandole incongruenti con quello che ritiene il vero modo d’essere dell’uomo, può considerarle dei banali incidenti di percorso.
Giunge poi la fa dell’attacco, in cui la violenza si manifesta in modo esplicito, spesso con aggressioni dirette al corpo della donna e/o attraverso urla, insulti e minacce. Le contingenze che precedono l’aggressione possono essere le più varie, ma il più delle volte si tratta di qualcosa che agli occhi del maltrattante costituisce un segno di autonomia psicologica da parte della donna, che evidenzi quindi il suo essere una persona autonoma.
Quando l’uomo realizza le possibili conseguenze della sua esplosione, arriva la fase del pentimento: in tale fase, tenta di scongiurare l’abbandono attraverso giustificazioni e scuse. Le modalità più comuni sono la minimizzazione di quanto accaduto e l’esteriorizzazione delle responsabilità, quali lo stress lavorativo, un problema finanziario, un momento di debolezza o ancora il “troppo amore” provato e la conseguente gelosia, oppure specifici comportamenti che la donna è invitata ad evitare in futuro. Questa fase è caratterizzata dalle promesse di cambiamento, ma il pentimento dell’uomo ha più a che fare con il timore di pagare il prezzo di un passo falso che con il dolore di aver ferito. Entrambi i partner possono desiderare la riconciliazione, ma con obiettivi incompatibili: chi subisce, spera in un cambiamento nella relazione e in una cessazione dei soprusi; chi abusa desidera ristabilire un suo schema di controllo, aspettandosi che la donna rinunci alla sua autonomia di pensiero e di azione, non lo «provochi» più e sviluppi una capacità di previsione dei suoi bisogni così da impedire una nuova perdita di controllo.
Il perdono e la disponibilità a lasciare alle spalle quanto accaduto inaugurano una fase di riconciliazione che ha il sapore di una nuova luna di miele. Il comportamento premuroso dell’uomo e la sua intenzione di rimediare potranno dare alla donna la sensazione di aver ritrovato colui che aveva scelto all’inizio della relazione. Si tratta però di un cambiamento transitorio, perché motivato da prospettiva dell’abbandono e/o perdita di potere, che porterà quindi a riproporre il controllo e l’aggressione. Nel periodo di riconciliazione infatti la donna abbassa la guardia e ricomincia a fidarsi, ma più lei ritrova spontaneità e permette alla propria individualità di emergere, più ci sarà accumulo di tensione e quindi di un riavvio ciclo.
È importante precisare che non tutte le storie di abuso domestico hanno le caratteristiche cicliche descritte, ci sono anche quelle in cui il maltrattamento costituisce più uno sfondo fisso. In alcuni casi, c’è di fatti un’abitualità di azioni violente e comportamenti manipolatori sia fuori che dentro la coppia mentre questa modalità ciclica sembrerebbe essere il modello prevalente tra i cosiddetti «violenti solo in famiglia».
Perché è difficile chiudere una relazione abusante?
Viene a questo punto spontaneo chiedersi come sia possibile che una donna rimanga a lungo in una relazione soffocante e umiliante. Al fine di dare una risposta a questa domanda, bisogna partire dal presupposto che la violenza in una relazione affettiva è profondamente confusiva, in quanto a compierla non è un estraneo o un nemico, ma qualcuno che si è amato; inoltre, la sua aggressività è il più delle volte intermittente e si alterna ciclicamente a comportamenti che sembrerebbero di tutt’altro segno.
Di fianco a queste motivazioni sottese, dobbiamo considerare che possono subentrare diversi vincoli che possono trattenere la donna dentro la relazione. Non tutte le vittime li sperimentano tutti ma ciascuno di essi può ostacolare la donna nell’interrompere definitivamente il rapporto.
In particolare, tra i principali, possiamo individuare la dipendenza economica della donna sviluppata negli anni nei confronti del partner. Questa può rappresentare un forte deterrente rispetto alla scelta di separarsi, in quanto costituisce una perdita di status e una nuova forma di dipendenza ignota e ancor meno prevedibile nelle sue implicazioni di quella, per lo meno già conosciuta, del maltrattante.
Tra i vincoli che impediscono alla donna di separarsi da un partner maltrattante, vi può essere una sua difficoltà nell’accedere a servizi e a istituzioni, magari per lei poco accessibili. Potrebbe, inoltre, non averne chiara l’operatività, temendo che il loro intervento abbia delle conseguenze negative su di lei e/o sulla propria famiglia (es. perdere i figli, il lavoro, venir giudicate come cattive madri).
Altresì, spesso la frequenza e la gravità delle violenze aumentano quando la donna manifesta l’intenzione di separarsi; pertanto, avendo le vittime una chiara percezione di questo rischio, potrebbero desistere dall’intenzione di lasciare il partner maltrattante, temendo che quest’ultimo diventi violento percependo tale intenzione.
Infine, è utile considerare come la dissoluzione di un legame implichi la fine di un progetto di vita in cui si è creduto, con una conseguente riorganizzazione dei propri obiettivi a medio e a lungo termine; questo assunto è valido tanto quando la separazione avviene da un partner amorevole, tanto quando da un partner maltrattante e può, quindi, essere caratterizzata da vissuti depressivi, difficili da affrontare.
Inoltre, il senso comune, attribuisce alla donna la capacità di assicurare la tenuta del legame, oltre che la considera pienamente realizzata solo all’interno di una famiglia, quindi assumendo il ruolo di moglie e madre. In questo quadro simbolico, non è raro che una donna venga persuasa a ritornare sui suoi passi, facendo leva proprio sui suoi stessi valori di riferimento, propri della cultura a cui appartiene.
Risulta facile comprendere come quindi, per le più svariate ragioni, una donna possa sentirsi incastrata in una relazione abusante e come per lei sia difficile chiedere aiuto.
È importante comprendere, nel caso di professionisti del settore ma non solo, che una donna vittima di violenza sta affrontando un trauma; pertanto, necessita di empatia, ascolto, comprensione, in una dimensione in cui non si senta giudicata ma accolta e accompagnata in un processo di riscoperta personale e di rielaborazione di quanto vissuto.