“Mio padre era commosso, cercava di non farlo capire, ma non seppe nasconderlo, quando mi disse che dovevo andare via.
– Salvati, almeno tu – e mi abbracciò forte.”
(La rosa di Damasco – D. Giancane)
Così iniziò il viaggio di Nesim, nato in Gambia e vissuto sotto una dittatura che picchia, tortura, condanna e uccide.
I migranti sono una popolazione vulnerabile, nel senso più letterale del termine: sono una popolazione ferita, di fatto o potenzialmente, sul versante fisico e/o psicologico; una popolazione destinata a confrontarsi quotidianamente con il senso di non appartenenza e di non riconoscimento che derivano dall’interruzione di quello che sarebbe stato il corso fisiologico della propria vita e dall’abbandono della propria patria e dei propri affetti, nella consapevolezza, spesso, di non potervi fare ritorno.
Sebbene la decisione dell’espatrio possa essere ponderata e consapevole, chi compie una simile scelta, nel desiderio di sopravvivere o di migliorare le proprie complesse condizioni di vita, difficilmente possiede la lucidità e la lungimiranza di valutare i costi e le conseguenze che ne perverranno, che si sostanziano, a causa della brusca interruzione dei legami affettivi primari, come traumi psicologici, con importanti ripercussioni emotive e comportamentali. Il trauma principale deriva dall’interruzione forzata dei legami familiari e, dunque, del corso del normale ciclo vitale della famiglia, che, mantenendo il delicato equilibrio tra appartenenza e separazione, dovrebbe svilupparsi in un lento movimento da uno stato di fusione neonatale/infantile fino all’affermazione dell’Io adulto, passando attraverso un graduale (e delicato) processo di separazione.
Se, da una parte, definiamo fusione uno stato di unione viscerale che non tollera alcuna forma di separazione, dall’altra, troviamo quello che Bowen denomina taglio emotivo, ovvero un improvviso distacco fisico e/o emotivo dai propri legami familiari, derivante da una vera e propria disconnessione degli stessi; si tratta di uno stato di separazione che, scavalcando le fasi del percorso di differenziazione di sé, promuove l’affermazione di un’identità adulta che, nell’illusione della propria indipendenza, si àncora saldamente, seppure inconsapevolmente, alle situazioni lasciate irrisolte. Tale meccanismo, che si articola come “strappo” non elaborato nel corso della vita adulta, si manifesta frequentemente nei migranti, obbligati a spezzare prematuramente tutto quanto concerne la propria appartenenza familiare e culturale e costretti a trascinare con sé gravi disagi e malesseri, reiterando conseguenti modelli interattivi e comportamentali deleteri e disfunzionali.
La maturità psicologica individuale non viene mai pienamente raggiunta, incastrando l’individuo nella cosiddetta posizione di figlio cronico, nella quale l’adulto, seppur distante dalla propria famiglia d’origine, non è riuscito a raggiungere un ruolo autonomo rispetto alla stessa, ma, al contrario, ha mantenuto un ruolo di dipendenza emotiva da questa e dalle sue figure, riproponendo tale dipendenza nelle successive relazioni sociali, rendendole spesso immature, finanche disfunzionali.
Reduci da questo vissuto emotivo e psicologico, inoltre, i migranti sviluppano un elevato grado di vulnerabilità alla psicopatologia, aggravato dalle esperienze traumatiche rivenienti dal viaggio intrapreso verso quello che diventerà il loro Paese ospitante; in particolare, si riscontra frequentemente la presenza di sintomi di Disturbo Post-Traumatico da Stress, in comorbidità con ideazione suicidaria, abuso di sostanze e profondi stati di ansia e/o depressione, corredati altresì da attacchi di panico, fobie sociali e disturbi somatici. Il disagio espresso attraverso tali difficoltà si sostanzia nella concomitante presenza di caratteristiche quali disregolazione emotiva e impulsività, che, nel tentativo di ricostituire un Sé frammentato, si esplicita tramite irrequietezza, comportamenti antisociali, gesti autolesivi, sintomi dissociativi e corporei.
Un prezioso lavoro di riabilitazione, specie in riferimento a rifugiati o richiedenti asilo, può essere condotto attraverso un sostegno psicoterapeutico e/o psicofarmacologico, mirati all’elaborazione della perdita e dei vissuti traumatici esperiti, al recupero dei ricordi rimossi e degli affetti negati, ad un percorso di riappropriazione della propria identità e di graduale costruzione di un rinnovato senso di sé, quotidianamente aumentati anche da elementi della nuova cultura di riferimento, al fine di promuovere un contemporaneo percorso di integrazione e inclusione.