Quando parliamo di mediazione, siamo portati a pensare ad un’azione che ha come obiettivo principale quello di incontrarsi su un piano comune per risolvere una controversia.
mediazióne s. f. [dal lat. tardo mediatio -onis, der. di mediare; v. mediatore]. – 1. a. Azione esercitata da una persona (o anche da un ente, un’associazione, una collettività, una nazione) per favorire accordi fra altre o per far loro superare i contrasti che le dividono.
Il concetto di “mediazione culturale” si è diffuso dopo la Seconda Guerra Mondiale fra le nazioni che hanno fatto ricorso a strategie diplomatiche e politiche di non intervento bellico. In tempi più recenti, la mediazione si reinventa e si diffonde soprattutto nell’ambito del privato sociale e del volontariato, come intervento di sostegno per le persone che si trovano in situazioni di disagio.
È interessante notare come l’idea primaria di mediazione, traslata sul piano dell’intercultura, e del lavoro con i cittadini stranieri, parta dalla considerazione che la comunicazione e il dialogo con persone di diverso background culturale sia una sorta di controversia da risolvere. Vi sono diverse motivazioni e obiettivi di “consumo”, alla base della mediazione linguistico culturale nella cultura di massa, dalle più sottese, estreme e conservatrici, alle più inclusive, solidali, etiche. La mediazione può servire a “smontare” la paura del diverso, del nuovo arrivato: la necessità di capire chi abbiamo davanti, quali sono i suoi obiettivi, e quali “privazioni” l’arrivo dello “straniero” comporta nella quotidianità del Paese ospite; nel corso dell’ultimo ventennio, la mediazione è invece diventata una sorta di spazio-tempo utilizzato per raccontare la cultura, le abitudini e le regole del Paese ospite, un invito per il migrante, ad “adeguarsi”, che è un po’ il fulcro del vecchio concetto di INTEGRAZIONE.
In Italia, la mediazione culturale nasce come spontanea, con interventi di sostegno in situazioni informali con un ruolo quasi esclusivamente di rappresentanza e di difesa, meglio, di “advocacy”, con il quale si intende la difesa dei diritti dell’utente, che avviene rappresentandolo e parlando in sua vece. Il concetto di “advocacy” si contrappone a quello di “empowerment”, con il quale si intendono il sostegno e l’aiuto dati alla persona in difficoltà affinché utilizzi nel modo corretto le informazioni e metta in atto le strategie più idonee per risolvere i problemi. In questo caso, il mediatore fa sì che l’immigrato possa rappresentarsi autonomamente e diviene un facilitatore di comunicazione. Il mediatore deve essere imparziale, conoscere entrambe le culture, essere in grado di individuare gli ostacoli e, infine, costruire un linguaggio condivisibile grazie al quale è possibile avviare un dialogo efficace.
La psicologa francese Margalit Cohen Emerique ha approfondito l’area interculturale nell’ambito della mediazione culturale finalizzata all’integrazione della persona immigrata e ha distinto tre tipologie di significato del termine mediazione. Il primo significato corrisponde all’azione di “intermediario” in situazioni in cui non c’è conflitto, ma ci sono difficoltà di comunicazione. In questa situazione, la mediazione consiste nel facilitare la comunicazione e la comprensione tra persone di culture diverse e nel dissipare i malintesi dovuti in prevalenza a un diverso sistema di codici e valori. Il secondo significato si riferisce all’area della risoluzione dei conflitti di valore tra la famiglia immigrata e la società di accoglienza, all’interno della famiglia stessa o di più persone, di diversa nazionalità che si trovano in un contesto di coabitazione. In questo contesto, gli interventi sono sempre piuttosto difficoltosi, sia quelli degli operatori sociali, troppo esterni ai codici culturali diversi della famiglia, che quelli del mediatore, che accede a una conoscenza più interna per una maggiore vicinanza all’utente.
Il terzo significato di mediazione fa riferimento al processo di creazione, implicando l’idea di trasformazione sociale e di costruzione di nuove norme basate su azioni effettuate e finalizzate alla risoluzione di problemi.
Per gli addetti ai lavori, la mediazione linguistico culturale è agganciata alla conoscenza reciproca, alla necessità di fornire informazioni chiare e di tutela, all’importanza di comprendere vissuti e background personali, per costruire relazioni e patti educativi, supportarli nel disegno del loro progetto nel Paese ospite, affinché possano arrivare a sentirsene parte attiva, anche portando un pezzo della loro cultura.
Di fatto, la costruzione di un intervento efficace, inclusivo e condiviso, con le persone migranti, passa da una comunicazione corretta, trasparente e aperta, che non può risolversi con la sola traduzione orale di ciò che la persona straniera ci sta raccontando, poiché richiede la volontà di trovare uno spazio comune, entro il quale le diverse culture possano incontrarsi; solo così è possibile sperare di costruire la relazione fiduciaria alla base del lavoro con i beneficiari; quello spazio comune è la mediazione linguistico culturale.
La mediazione linguistico culturale si definisce come “un’attività che, mettendo a frutto competenze linguistiche e/o interculturali, ha come obiettivo la facilitazione della comprensione tra persone o gruppi, appartenenti a culture e/o lingue diverse, per provare a rendere paritaria la comunicazione tra le parti, e garantire alla parte più debole l’esercizio di un diritto e l’accesso a opportunità, che altrimenti le sarebbero precluse.”
Nel corso degli anni, il mutare dei flussi migratori, in termini di intensità, provenienza, target d’età, ha richiesto che il sistema dell’accoglienza e l’operatività degli addetti ai lavori, adeguasse gli interventi alla relativa complessità.
Compensare tale complessità spesso significa diversificare un lavoro che però è dentro una precisa cornice normativa; ciò richiede un investimento di energie importante (lavorare in un progetto SAI, con e per un beneficiario neomaggiorenne egiziano, richiede un’elaborazione di approccio e di interventi molto diversa da quella pensata per un beneficiario trentenne ghanese), possibile solo grazie al lavoro di équipe, condividendo obiettivi e percorsi. Tuttavia, senza la collaborazione costante dei mediatori culturali, questo già faticoso lavoro sarebbe quasi impossibile.
La comunicazione è caratterizzata da diversi linguaggi verbali e non verbali; l’intonazione o il tono della voce, la postura assunta, espressioni può assumere significati diversi, nelle diverse culture. Circa 10 anni fa, durante un colloquio, un beneficiario giordano evitò accuratamente di incrociare il mio sguardo, assumendo una postura che per tutto il tempo, sembrava voler ignorare o respingere qualunque forma di dialogo; ciò che emerse, sul finire del colloquio, grazie al mediatore presente, fu che il beneficiario riteneva irrispettoso guardare negli occhi una persona con ruolo di responsabilità, come apparivo io, in quel momento e in quella interazione.
Tra comunicazione e cultura esiste, quindi, un profondo e intrinseco legame, in quanto i processi comunicativi orientano e influenzano in modo essenziale la cultura in cui sono inseriti, così come la cultura dà forma e sostanza ai processi comunicativi che la manifestano. In quest’ottica, diventa naturale considerare la cultura come un sistema di mediazione, perché ogni persona si trova a vivere in un contesto ambientale trasformato dall’attività di coloro che lo hanno preceduto.
Le funzioni del mediatore sono essenzialmente quattro: 1) interpretare in termini culturali il disagio psico-sociale connesso al processo di immigrazione, in modo che questo disagio diventi “visibile” all’operatore italiano e che il beneficiario straniero sia messo nelle condizioni di esprimersi; 2) fungere da interfaccia sia dell’operatore italiano che del beneficiario, facilitando le esigenze di comunicazione di entrambi; 3) aiutare il processo di inserimento nella realtà italiana del cittadino straniero favorendo la conoscenza e l’utilizzo dei servizi presenti nel territorio; 4) favorire la costruzione del rapporto fiduciario fra beneficiario e operatore.
Tuttavia, nonostante l’indubbio valore della figura del mediatore, in area sociale, sanitaria, legale, atto anche ad incoraggiare l’apprendimento della lingua italiana, ad oggi, il profilo professionale vive ancora una condizione incerta. Per primo, il D.lgs. n. 286/1998 (Testo unico in materia di immigrazione), all’articolo 38, richiama la figura dei mediatori culturali, in materia di istruzione degli stranieri ed educazione interculturale, come ausilio nelle comunicazioni con le famiglie degli alunni stranieri.
Disposizioni aventi a oggetto il ruolo del mediatore interculturale si rinvengono anche nella normativa in materia sanitaria, sia in merito alla formazione di mediatori specializzati, sia alla presenza degli stessi nelle strutture ospedaliere al fine di facilitare la rimozione delle barriere socio-culturali e l’accesso all’assistenza sanitaria (L. n. 7/2006 e il Decreto del Ministero della Salute del 17 dicembre 2007).
Nel 2014 un Gruppo di Lavoro Istituzionale” (GLI) coordinato dal Ministero dell’Interno, ha lavorato alla definizione di un possibile riconoscimento della figura del mediatore interculturale a fronte della mancanza di un profilo omogeneo valido per tutto il territorio nazionale. Il dibattito, negli ultimi anni si è un po’ arenato e permangono le criticità intorno al riconoscimento della figura del mediatore culturale, dei suoi requisiti minimi e delle qualifiche possedute per svolgere tale attività. Allo stato attuale, la più alta percentuale di mediatori a supporto dei servizi per migranti, sono ex beneficiari degli stessi servizi, che nel tempo hanno perfezionato il livello di comprensione e conoscenza della lingua italiana e imparato le dinamiche operatori-beneficiari. Le criticità registrate hanno una duplice matrice: quello formativo/normativo, che attiene a regolamenti regionali e i relativi riconoscimenti formali e quello relativo alla scarsità di figure che parlino dialetti e lingue specifiche di etnie, con una presenza numerica sempre maggiore, che insistono sul nostro territorio. Tali criticità rallentano e affaticano tutti i processi di inclusione e i progetti di autonomia; per questo resta importante dare rilievo politico e sociale al potere della mediazione interculturale.
“Cosa ha significato per te, avere un mediatore, quando sei arrivata in Italia?”
“È stato sapere di essere importante, sapere che quello che avevo da dire e da raccontare era importante; sapere di avere un valore anche lontano dalla mia terra.” Y. ex beneficiaria, ora mediatrice.