Fino al mese di febbraio 2022, il popolo ucraino viveva una normale quotidianità, come quella a cui siamo abituati tutti noi oggi. Da un giorno all’altro, per via del conflitto russo – ucraino che sembra non voler retrocedere, in milioni hanno dovuto lasciare l’Ucraina, spesso dovendosi separare dalle proprie famiglie; molti civili sono diventati combattenti e le città sono sotto assedio.
Naturalmente, tra le molteplici conseguenze della guerra, bisogna considerare anche l’impatto che questa ha sulla salute mentale delle persone coinvolte. Forse sono meno visibili, ma non per questo meno preoccupanti.
Depressione e disturbo post traumatico sono le problematiche che più si rilevano tra le persone che si ritrovano a dover vivere una disumanità così grande, che costringe da un giorno all’altro a dover stravolgere le proprie vite, temendo per la propria incolumità e per quella dei propri cari.
Considerato il mio ruolo di psicologa ho, pertanto, durante questi ultimi mesi, ricevuto diverse richieste di sostegno psicologico in favore di rifugiati provenienti dall’Ucraina, attualmente ospiti in progetti di accoglienza integrata che, oltre a fornire vitto e alloggio, provvedono alla realizzazione di attività di accompagnamento sociale e di assistenza socio – sanitaria, anche di tipo psicologico.
La presa in carico dei migranti provenienti dall’Ucraina: caratteristiche e difficoltà
Mi sono approcciata a questo mondo conscia della delicatezza del momento storico che stiamo attraversando e del fatto che, a prescindere, adattarsi ad un nuovo contesto richieda l’attivazione di risorse e capacità specifiche; tale operazione, soprattutto quando non si è in un periodo di benessere, può divenire molto complicata.
Altresì, una delle prime riflessioni che ho sviluppato e che poi ho riscontrato nella pratica clinica, è quella per cui la totale incertezza sul futuro è facile che demoralizzi notevolmente le molteplici operazioni da mettere in atto volte all’integrazione nel nuovo contesto.
Prendiamo un esempio (apparentemente) banale: l’apprendimento della lingua italiana. Ho incontrato spesso, durante le consulenze da me effettuate, individui poco incentivati ad apprendere da zero una nuova lingua, soprattutto perché così diversa dalla propria in quanto, in un’ottica di speranza nei confronti di una fine del conflitto tra Russia e Ucraina, tutti gli sforzi messi in atto per raggiungere tale obiettivo, potrebbero rivelarsi totalmente vani. Sforzi percepiti come particolarmente onerosi, poiché da sommarsi a tutti gli altri che si stanno attualmente compiendo, accompagnati da uno stato d’animo per lo più connotato da ansia, preoccupazione e tristezza.
Di fatti, negli incontri da me effettuati con i beneficiari ucraini, ho sempre sentito quanto tutti loro fossero come “in attesa”, sicuramente privi di sicurezze rispetto a ciò che accadrà ma speranzosi che si sarebbe andati verso una fine della guerra. Una fine che, ahimè, tutt’oggi tarda ad arrivare.
Ho incontrato minori, desiderosi di integrarsi nel nuovo sistema scolastico italiano, ma quasi titubanti nel mettersi in gioco nel farlo realmente in quanto tale operazione avrebbe voluto dire, oserei dire anche in una forma inconscia, che sarebbe stato questo il loro posto; un posto che, per quanto riconoscano essere ricco di bellezza, non hanno scelto.
Ho incontrato donne, lontane dai loro mariti, che si chiedevano quando avrebbero potuto riabbracciarli, accompagnate dal senso di colpa per essersi messe in salvo mentre loro non avevano potuto farlo.
Ho incontrato madri che si sono inaspettatamente e di improvviso sentite inadeguate nel ricoprire questo ruolo, in una terra a loro sconosciuta e con figli segnati dalla guerra e dalla successiva fuga dalla stessa. “Sarò in grado di garantire loro un futuro?”, o “di sostenerli in un luogo dove io per prima non mi riconosco e sono lontana dagli altri affetti familiari?”, tra le paure che più spesso mi sono sentita palesare.
Un’altra problematica che emerge spesso durante i colloqui e che, talvolta, li rende di difficile conduzione è l’incapacità di “spegnere il cervello”, non riuscendo a focalizzarsi sul qui ed ora e, pertanto, a lavorare in maniera costruttiva durante il tempo presente. Un tempo presente che si vive come di passaggio, in quanto il desiderio di tutti è, comprensibilmente, quello di far rientro nel proprio Paese di origine.
Il contesto terapeutico come spazio sicuro
Tutto questo e anche tanto altro, accade perché quando si affronta un’esperienza traumatica come la guerra, l’individuo si trova dinanzi ad un mondo che appare non avere più significato, incredulo e privato di quel senso di sicurezza e stabilità di cui nessun essere umano dovrebbe essere mai privato.
Questo senso di sicurezza e stabilità speriamo, nel nostro piccolo, di farlo in parte riprovare anche passando da un sostegno psicologico, fornendo quindi uno spazio in cui dar voce a quelle che sono le paure sperimentate e accogliendole. Uno spazio in cui cercare di dare insieme un senso a quanto si prova e cercando di trovare risposte concrete e reali, in cui trovare un significato al tempo presente vissuto, non solo aspettando che scorra ma anche cercando di portare con sé coraggiosamente qualcosa di buono. Tutto questo, sempre mantenendo ben salda quella speranza, provata da tutti i beneficiari ucraini da me incontrati, che si possa tornare al più presto alle proprie vite, liberi di scegliere il proprio futuro.