Il sistema dell’accoglienza di persone richiedenti asilo o rifugiate, in Italia, si presenta come multiforme, stratificato e regolato da una serie di criteri d’accesso legati al target dell’identità di genere, dell’età, delle problematiche e/o dei bisogni dei quali i beneficiari che incrociamo nei nostri servizi, sono portatori.
I flussi migratori sono da sempre percepiti dalle politiche governative di molti Paesi ospitanti, come un’onda anomala ma costante e difficile da gestire. Nel corso degli anni, il tema dell’accoglienza è stato oggetto di critiche, revisioni, ampliamenti, modifiche formali e sostanziali, con il fine di applicare tutte le norme per garantire riparo, nel rispetto della dignità e dei diritti umani fondamentali; un riparo per tutte le persone che lasciano la propria terra, sacrificando le proprie radici in un baratto drammatico fra la propria casa e i propri affetti, con l’opportunità di cambiare in meglio il corso della vita propria e delle persone care.
Lavoro nell’accoglienza residenziale da circa 10 anni, da 2 coordino un progetto SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione), dedicato all’accoglienza di nuclei familiari e/o monoparentali; insieme, persone impegnate sul campo e addetti ai lavori, ex beneficiari dei SAI, abbiamo auspicato, preteso e attraversato tutti i cambiamenti che nell’ultimo ventennio, hanno caratterizzato servizi e strutture dedicati alle persone migranti, sperimentando modelli operativi efficaci in favore dell’accoglienza e del rispetto dei diritti primari, quali il diritto alla residenza, alle cure, all’istruzione, al lavoro, delle persone richiedenti asilo, rifugiate e titolari di protezione internazionale; cambiamenti che con il decreto Salvini del 2018, sono tornati ad essere messi in discussione, e le cui revisioni, hanno reintrodotto in minima parte. L’approccio dei governi europei e non solo, ha sempre posto l’accento sulla differenza fra “migrante economico” e “migrante profugo di guerra”, riconoscendo la reale necessità, solo del secondo caso, diniegando il primo e ignorando i flussi, già in atto e destinati ad aumentare a causa del global warming, dei “migranti climatici”. Tuttavia, anche rispetto ai profughi di guerra, assistiamo a posizioni non imparziali, assunte dal nostro paese, in relazione per esempio, alle zone di conflitto, che hanno ricadute anche sul nostro lavoro e sui percorsi di inclusione dei beneficiari per il quali lavoriamo.
Secondo l’Oxfam Italia, si considerano almeno 100 conflitti armati in corso; se consideriamo anche atti di violenza unilaterale da parti di gruppi organizzati, siano esse forze armate ufficiali o no, il conto sale a 187, che secondo l’Uppsala Data Conflict Program, hanno causato un totale 238.000 morti, di cui 100.000 solo nel conflitto in corso in Etiopia. Il nostro lavoro è stato, ed è ancora oggi, quello di accogliere, rassicurare, orientare persone di nazionalità diverse, con ferite e storie diverse, ma tutte accomunate da un vissuto di perdita, di povertà, di violenza. È un lavoro settato su una serie di richieste e di bisogni, figli di quei vissuti, e nella gran parte dei casi, aggravati dal transito e/o dalle prigioni libiche; noi operatori dell’accoglienza abbiamo imparato a farci trovare pronti a raccogliere dolori e speranze, porgendo il braccio ad ogni persona che ne ha bisogno, fino al momento in cui può tornare a camminare da solo, sul sentiero che ha scelto, nel nostro Paese o altrove.
L’Emergenza Ucraina: primi dati empirici ed osservazioni sull’accoglienza
Il 24 Febbraio 2022, la violenta offensiva russa nei territori ucraini ha cambiato la storia; ha cambiato molte storie, quella dell’Ucraina e dell’Europa, quella delle persone ucraine rimaste a combattere, o vicine a chi combatte, quella delle persone ucraine rifugiate in altri paesi, per tenere al sicuro i propri figli e le proprie figlie. Le storie di chi fugge dalla propria casa, sono quelle che iniziano con la conta delle perdite e finiscono con il coraggio della ricostruzione. Nel nostro progetto SAI, le contingenze hanno determinato una specifica area di accoglienza dedicata alle persone ucraine, madri con figli, figlie con madri over 50, ragazzi adolescenti, strappati al conflitto.
L’attenzione, anche mediatica, sugli attacchi perpetrati in Ucraina, la vicinanza geografica di un popolo considerato “dentro” l’Europa, e il peso sociopolitico che il conflitto ha assunto sulla scena internazionale, hanno attivato modalità di accoglienza, nel nostro Paese, diversificate, alimentate da un principio di comunanza, di partecipazione e di identificazione, che in casi analoghi, per altre persone in fuga, da terre dilaniate da violenze e conflitti, non si era mai registrato.
Il 4 marzo 2022 il Consiglio dell’Unione europea, a fronte dell’afflusso massiccio di sfollati che per via del conflitto armato hanno lasciato l’Ucraina e che hanno fatto ingresso nel territorio dell’Unione, ha deciso di attivare la Direttiva 2001/55/CE sulla protezione temporanea.
Sono stati agevolati i trasferimenti dall’Ucraina verso l’Italia, per le persone ucraine che non avevano mezzi, sono state attivate forme di ospitalità e accoglienza, formali e informali, e chiusa la fase emergenziale, nella quale anche i liberi cittadini si sono attivati per offrire ogni forma di contributo, i sistemi di accoglienza normati, di emanazione diretta delle singole amministrazioni Comunali, Regionali e Ministeriali hanno garantito il prosieguo di un’accoglienza che dovesse essere anche accompagnamento all’autonomia. Noi operatori dell’accoglienza, seguendo una prassi operativa consolidata, ci siamo confrontati, questa volta, con persone rifugiate ma portatrici di bisogni molto diversi; persone che hanno lasciato la propria terra, e sono giunte in Italia, a Bari, con il condizionamento psicologico della “temporaneità”, iscritta nell’arco di poche settimane, entro le quali, secondo loro, la guerra sarebbe finita; quasi tutte le persone ucraine accolte, donne principalmente, si mostravano accomunate, dalla ritrosia di utilizzare l’esperienza di accoglienza, nella sua pienezza, per esempio rifiutando i corsi di alfabetizzazione, “sfuggendo” alla relazione con gli operatori dell’équipe, evitando la condivisione degli spazi abitativi e culturali con persone di altre nazionalità, ugualmente rifugiate o richiedenti asilo, restando chiuse e strette dentro la propria comunità. Non sono situazioni nuove, per chi lavora nell’accoglienza, ma lo sono se si registrano come una tendenza, un sentire generale di un gruppo di persone, provenienti dalla stessa area geografica, con qualche eccezione. Presto abbiamo capito che, soddisfatto il bisogno abitativo, con l’accoglienza presso gli appartamenti del SAI, con tutta la parte delle erogazioni economiche giornaliere minime, altri bisogni primari riguardavano un certo tipo di socialità, la cura per sé stessi, lo svago, le uscite, le gite fuori porta, tutto confluito nella costruzione di una vita temporanea, sospesa, che era più declinabile sul modello di una vacanza, alimentando l’idea di una celere risoluzione del conflitto. Un meccanismo di difesa, forse attivato per sopportare l’idea di aver dovuto lasciare l’Ucraina. Da una sorta di osservatorio privilegiato, osservavamo la tempistica velocissima della richiesta e del ritiro del permesso di soggiorno, grazie al canale preferenziale della protezione temporanea, la possibilità di tornare in Ucraina per poi far rientro in Italia, senza limitazioni, la condizione economica effettiva dei beneficiari ucraini, mai nota, e al contempo, il messaggio politico forte di “resistenza”, tutto attraversato da quella sensazione di sottofondo: l’adattarsi, l’integrarsi, costruirsi una piccola solidità, qui, vissuto da rifugiati/e ucraini/e come un tradimento a danno di chi è rimasto nella terra natia.
La necessità di rivedere le prospettive canoniche dell’accoglienza
Questo quadro generale, questo nuovo flusso, ci ha fatti trovare pronti come sempre, in favore di persone che tuttavia, sembrava quasi non ne avessero bisogno: una condizione che ha generato sentimenti di frustrazione e disorientamento, rispetto al senso del nostro lavoro.
Siamo di fatto passati da nuclei familiari e singole persone di provenienza extraeuropea, per i quali persino un appuntamento in Questura si traduceva in attese drammatiche, o l’accoglienza stessa nei progetti SAI, richiedeva tempistiche di rilievo, a famiglie ucraine, che in poche settimane, vedevano attivarsi il sistema nazionale, garantendo, a più livelli, ciò che effettivamente andrebbe garantito per tutte le persone che chiedono protezione, asilo, accoglienza.
Gestire questo sentimento, quasi vicino all’ingiustizia, ha reso ancor più difficile accettare che, di fianco a persone rifugiate, che arrivano via mare, attraversando la Libia, affrontando rischi altissimi, e pronti a ricominciare imparando la lingua, adeguando le proprie competenze a lavori che forse non avrebbero scelto, come l’agricoltura o la ristorazione, potessero esserci persone rifugiate, che hanno visto la propria vita e i propri affetti andare in frantumi in pochi giorni, ma che portavano con loro stesse, l’abitudine al benessere, l’impossibilità e l’assoluto rifiuto a cambiare il proprio stile di vita, la “pretesa meritocratica” per un popolo che non abbandona il campo davanti all’invasore, e soprattutto europeo.
Dopo mesi trascorsi a rintracciare un modello operativo che fosse efficace, grazie ai percorsi di supervisione, come équipe abbiamo riflettuto sulla diversificazione dell’accoglienza; sull’opportunità di fare i conti con uno scenario differente, che contempla persone che non sono interessate a sottoscrivere patti di accoglienza e ad affidarsi agli operatori di progetto, che non hanno vissuto la povertà o la miseria, e che in quanto esseri umani che tutto hanno perso, pretendono di averne indietro almeno una parte.
Sedersi in un locale, con un’amica a bere un cocktail, dare priorità alla cura estetica, sono altre forme di riappropriazione della dignità, con base culturale differente. L’emergenza Ucraina e la successiva accoglienza ci hanno insegnato che non esistono confini segnati nel nostro lavoro; ci ha insegnato che i vademecum generali sono indispensabili, per rendere un servizio equo e tutelante, ma che occorre poter derogare, superando i criteri operativi dell’accoglienza, per evitare di precipitare nella valle oscura degli stereotipi.