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La dualità del mestiere d’aiuto: una riflessione ontologica

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“Cosa vuoi fare da grande?” 

Chi di noi non ha risposto almeno una volta al quesito che, fluido e ingenuo durante l’infanzia, diventa precursore di dubbi e incertezze solo pochi anni più tardi, nella prospettiva instabile e caleidoscopica della crescita? Le più quotate tra le nostre risposte, infantili e impulsive, probabilmente saranno state: astronauta, ballerina, guerriero e principessa, perché, si sa, la dote più pura e ricca di un bambino non può che essere l’immaginazione; e cosa di più auspicabile, agli occhi di un bambino, di qualcosa di attualmente inarrivabile ma al contempo bramato, qualcosa che ci faccia diventare come i protagonisti delle favole che tante volte abbiamo letto e ascoltato? È quasi onnipotenza quella di cui ci sentiamo padroni quando proiettiamo i nostri desideri a decenni di distanza, prevedendo l’imprevedibile, scavalcando ostacoli, precorrendo i tempi e dimenticando la consapevolezza del peso delle scelte. La verità è che noi, piccoli e incoscienti, non dobbiamo porci alcun interrogativo di realtà futura, ma siamo chiamati al sogno di progetti tanto grandiosi quanto irrealizzabili, finché ci è concesso.  

L’adultità, però, ci pone nuovamente il medesimo quesito, quando realmente dobbiamo indirizzare le nostre vite verso un investimento professionale, verso percorsi di studio lunghi e impegnativi, che, solo se spinti da motivazione, ci permetteranno di realizzarci. Forse. E dopo? Quando dal teorico e nozionistico mondo accademico veniamo catapultati nella realtà professionale, cosa davvero ci spinge a scegliere un’occupazione e a mantenerla? Cosa ci fornisce quel germoglio di curiosità e desiderio di crescita da cui quotidianamente decidiamo di essere quel professionista, certo diverso da quanto auspicato da bambini? Domande certo complesse per qualunque esperto, ma specie per chi, ogni giorno, sceglie di svolgere una professione d’aiuto, di dedicare se stesso ad altri, di essere psicologo, educatore, medico, assistente sociale, infermiere; chi sceglie di realizzarsi alla stregua del bene altrui, talvolta in un infinito oceano di difficoltà, rischi e, non ultime, insoddisfazioni economiche.  

E ce lo siamo domandato davvero il motivo delle nostre scelte? Ci siamo guardati dentro, attraversando il nostro passato e le sue, le nostre, ombre, per darci una risposta? E abbiamo avuto il coraggio di intraprendere la nostra professione d’aiuto investendo nelle relazioni che essa implica, senza lo schermo del muro dietro cui ci nascondiamo spesso per evitare di vedere il nostro guscio frammentarsi? Lecito è domandarsi tutto ciò, perché lavorare con il fragile materiale umano è quanto di più autentico, gratificante, altruista, ma anche complesso, doloroso e angosciante ci sia. La scelta di abbandonare le armature e diventare guerrieri in un’accezione molto più nobile e rischiosa di quanto avremmo mai immaginato da bambini. Ed è ugualmente lecito, al contempo, temere le risposte a questi interrogativi, quando ci obbligano a specchiarci anche in putride pozzanghere, profonde spesso ben più di quanto diano a vedere.  

Le professioni d’aiuto forniscono quotidiani spunti di riflessione rispetto a svariate componenti della nostra vita, ci spingono a riscoprire vissuti depositati in nascosti cassetti chiusi a chiave e a sollevare tappeti sotto cui abbiamo tentato di celare la polvere dei dolori che non abbiamo avuto la forza di attraversare.

Le professioni d’aiuto forniscono quotidiani spunti di riflessione rispetto a svariate componenti della nostra vita, ci spingono a riscoprire vissuti depositati in nascosti cassetti chiusi a chiave e a sollevare tappeti sotto cui abbiamo tentato di celare la polvere dei dolori che non abbiamo avuto la forza di attraversare. Non è possibile pensare a questo tipo di professioni prescindendo dal dolore umano, perché è insito nella nostra natura; chiunque potrà asserire di aver vissuto attimi, a volte ben più che attimi, in cui ha avvertito il tocco dei propri nervi scoperti, che vibrano ricalcando le sofferenze a cui sono collegati. Lavorare nel contesto sociale significa mettere in discussione ogni parte di sé nella costruzione della relazione con l’altro, che, paziente, ospite, utente, in qualunque caso, a sua volta si spoglia di sovrastrutture e maschere, per regalarsi anch’egli mettendo un passo nel vuoto. Si è inevitabilmente portati ad un’involontaria ma doverosa perdita di equilibrio, all’abbandono di luoghi sicuri a cui si è soliti affidarsi, per fare quel passo di speranzosa incertezza. Perciò spesso il nostro investimento emotivo è davvero degno di nota, lo è l’empatia che siamo in grado di esercitare, così come lo è il rischio di una rovinosa (ma fortunatamente provvisoria) caduta.  

Eppure non si tratta solo di una scelta professionale dettata dall’altruismo, non si tratta solo del bene altrui, né dell’esclusiva tutela dell’altro: potremmo raccontarcelo talvolta, nella comodità del non volersi specchiare nel proprio mondo interiore; ma c’è qualcosa di molto meno caritatevole e filantropico che è sotteso, qualcosa che contempla l’obiettivo meramente egoistico di sopperire alle nostre mancanze, di dimostrare che siamo migliori delle esperienze che abbiamo sperimentato, che sappiamo essere meritevoli di valore umano, degni di fiducia, investiti in relazioni e contesti complessi e amari. E desideriamo, parimenti, essere visti, riconosciuti, validati dall’altro; speriamo che individui in noi un punto di riferimento, una figura quasi salvifica; noi che, vittime sacrificali di noi stessi, ci destiniamo un piccolo angolo buio per far spazio e luce a chi designiamo come bisognoso.  

Difficile ammissione questa per chi, di fatto, sceglie di posporre il proprio io all’altro; ma è questo che davvero facciamo? O magari ci immoliamo in nome del bene di un altro per tutelare, silentemente, anche il nostro? Di fatto, donarci ci consente di rendere leggeri vissuti luttuosi, di dimostrarci degni di gratitudine e, semplicemente, di evitare di frammentarci. Forse per questo è noto che è la sofferenza a muovere il mestiere d’aiuto: perché, per acquisire capacità emotive, relazionali, umane, è necessario comprendere il significato della mancanza di queste, per iniziare a costruire dal nulla, dalla perdita e dalle assenze, dagli abbandoni e dalle carenze.  

Forse per questo è noto che è la sofferenza a muovere il mestiere d’aiuto: perché, per acquisire capacità emotive, relazionali, umane, è necessario comprendere il significato della mancanza di queste, per iniziare a costruire dal nulla, dalla perdita e dalle assenze, dagli abbandoni e dalle carenze.

E forse otteniamo un valore ben più grande e profondo quando, esercitando un mestiere d’aiuto, diventiamo in grado di attraversare tutto questo; quanto più acquisiamo consapevolezza del nostro limite, dei nostri bisogni mancati, delle nostre antiche ferite non rimarginate, tanto più siamo capaci di essere realmente i professionisti che abbiamo scelto di diventare, oltre le narcisistiche necessità non soddisfatte di un io ancora lacero e incompleto.

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