Pochi lo sanno, ma in Puglia è attivo un progetto di supporto per i lavoratori migranti che vivono nella Capitanata, che è considerato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità una delle migliori 49 pratiche mondiali di assistenza ai migranti.
Questo riconoscimento importante è stato conferito al progetto Supreme, portato avanti dall’Ong “CUAMM – Medici con l’Africa” con il supporto della Regione Puglia. Il progetto si basa su un servizio molto semplice, ma che si sta rivelando estremamente efficace: un camper, attrezzato come una vera e propria clinica mobile con farmaci e strumenti diagnostici, che trasporta in giro tra campi e insediamenti informali dove vivono i lavoratori stranieri, delle equipe multidisciplinari composte da medici, infermieri, autisti e mediatori culturali. Attorno ad un principio così semplice, l’OMS sembra voglia farne un modello.
Sono un medico specializzando dell’Università di Bari che da qualche anno presta servizio come volontario per questa organizzazione. Approfitterò quindi di questo spazio per parlarvi di questo progetto, e per illustrare meglio tematiche come il lavoro straniero nei campi pugliesi, o come i servizi sanitari a cui può accedere un cittadino straniero in Italia. Nozioni di cui non è scontata la conoscenza per chi vive fuori dal settore.
In generale non è mai facile parlare di migranti, di caporalato, di servizi per l’accoglienza. I motivi sono tanti, ma ne citerò 3.
Prima di tutto perché attorno a questo tema è stata costruita una gigantesca battaglia ideologica: ormai è difficile discutere anche di questioni tecniche legate al mondo dell’immigrazione, come i risvolti economici o il sistema di welfare ad esso correlato, senza mostrare il proprio posizionamento politico. In un Paese, aggiungerei, talmente diviso che non riesce ancora a decidere se chi salva dei migranti che annegano sia un criminale o un eroe.
In secondo luogo, perché la popolazione migrante, soprattutto nelle sue sacche più vulnerabili e marginalizzate, risulta poco visibile ai nostri occhi.
Infine, perché discutere di argomenti come lo sfruttamento dei lavoratori migranti, ci porta a mettere in discussione anche una serie di aspetti sistemici, che toccano però da vicino la nostra vita quotidiana. Quanto dovremmo pagare un litro di salsa di pomodoro se i braccianti agricoli chiedessero più di 3€ l’ora per lavorare? Quanto dovremmo pagare la badante dei nostri nonni se dovessimo assicurare una vita dignitosa a lei ed alla sua famiglia?
Ci sono però avvenimenti che scuotono talmente tanto l’opinione pubblica da riuscire a rompere questo tabù. È il caso di Satnam Singh, il 31enne di origini indiane morto il mese scorso a Latina dopo aver perso un braccio in un incidente sul lavoro.
Questa tragedia ha portato tantissimi giornalisti, attivisti, e comuni cittadini, a chiedere di fare luce sulle condizioni sistemiche che rendono nel mondo agricolo più frequenti fenomeni di questo tipo rispetto agli altri settori. Dalle indagini è venuto fuori che nel settore agricolo lavorano oltre 230mila migranti senza contratto, e nel 66% delle aziende controllate randomicamente sono venute fuori pesanti irregolarità legate alla sicurezza sul lavoro.
Nel settore degli allevamenti intensivi lombardi è emerso invece che il 50% dei lavoratori proviene da India, Ghana e Cina.
La Puglia, in particolare modo l’area di Foggia, è una delle zone italiane con la più alta presenza di braccianti agricoli. La povertà e marginalità di queste categorie di lavoratori, solitamente migranti e con scarsi contatti con cittadini italiani, li rende particolarmente esposti a fenomeni di “caporalato”, un sistema illegale di reclutamento e sfruttamento lavorativo, in cui intermediari chiamati “caporali” organizzano e gestiscono la manodopera, per impiegarla in lavori agricoli con condizioni di lavoro dure, salari bassi e senza tutele legali o diritti fondamentali.
Nei campi della Capitanata vivono migliaia di braccianti agricoli provenienti dal nord Africa, dall’Africa occidentale, dall’est Europa. Si trasferiscono in Puglia, attirati dalle possibilità di guadagno nel settore agricolo. Alcuni sono stanziali, altri restano qui poche settimane o mesi, solo per accumulare un po’ di denaro nel periodo della raccolta. In generale vivono in baraccopoli, tendopoli o insediamenti informali privi di servizi igienici o elettrici essenziali, e si dividono per regioni o etnie di provenienza. Alcune di queste, come Borgo Mezzanone, nel periodo della raccolta del pomodoro arrivano a contare 5000 abitanti. Considerate infatti che quasi il 6% della produzione mondiale di pomodoro ha origine in queste zone.
La baraccopoli di Borgo Mezzanone sorge sulle ceneri di un vecchio aeroporto dove migliaia di migranti si erano rifugiati una decina di anni fa, alla ricerca di un luogo con accesso ad acqua ed elettricità, ed ha l’aspetto di una new town africana; è uno degli insediamenti con il più alto numero di abitanti stanziali, insieme a quelli di Casa Sankara ed Arena, due strutture messe a disposizione dalla Regione dove alloggiano rispettivamente 500 e 400 migranti.
Disagi ancora maggiori sono vissuti dalle popolazioni sparse tra insediamenti e tendopoli dove si raccolgono migranti nelle settimane della raccolta, come Turi, Terlizzi, Uliveto, Cicerone, Borgo Tressanti, Terraneo, Ripalta…ciascuna di queste aree nei periodi di punta viene raggiunta da diverse centinaia di lavoratori che, spinti dalla necessità di una paga, piantano tende o materassi sotto gli alberi od in casolari abbandonati, sforniti di servizi, corrente ed in condizioni igienico sanitarie precarie.
È in questo contesto che, nel 2018, l’Ong CUAMM Medici Con l’Africa decide di attivare un progetto di supporto sociale e sanitario per i lavoratori migranti che vivono nei ghetti, riattivando la clinica mobile che anni prima la Regione Puglia aveva fornito all’ong Emergency. È l’antenato del progetto Supreme, che partirà invece nel 2020 quando la Regione Puglia intercetta un finanziamento europeo destinato alla lotta al caporalato, e decide di utilizzarne una parte per ampliare le attività di Medici Con l’Africa in quel territorio, chiedendo all’ong di attivarsi per contrastare la diffusione del Covid negli insediamenti.
Da quel giorno Medici Con l’Africa ha effettuato più di 15.000 visite, fornito 60.000 pasti, e seguito negli anni più di 4000 pazienti. Il servizio di supporto sociale e sanitario fornito risulta particolarmente decisivo, considerando che spesso l’equipe della clinica mobile è l’unica interfaccia tra questi lavoratori migranti e l’intero sistema di welfare italiano.
Va fatta una doverosa considerazione: tutti i lavoratori stranieri hanno diritto di accesso ai servizi sanitari. I migranti con permesso di soggiorno possono farlo tramite regolare tessera sanitaria, i migranti senza permesso di soggiorno possono richiedere uno speciale codice Stp con cui accedere a cure e medico di base, mentre quelli provenienti dall’est Europa possono richiedere il codice Eni. Nel caso però dei lavoratori agricoli, si tratta di persone spesso che non sempre parlano italiano, e che durante i mesi di permanenza qui si interfacciano solo con i loro connazionali che vivono o lavorano nella stessa area.
In condizioni di estrema marginalità è raro che questi lavoratori abbiano una piena conoscenza dei loro diritti e degli strumenti di accesso ai servizi di welfare.
Per questi motivi, l’attività di CUAMM è risultata essenziale per tantissimi pazienti. Fornendo a migliaia di lavoratori i farmaci e le cure necessarie, ed indirizzando (spesso accompagnando) in centinaia di casi i pazienti verso cure ospedaliere più appropriate, ed occupandosi anche della parte di prenotazione delle visite specialistiche e di orientamento sociosanitario il camper della ong è diventato un riferimento per queste popolazioni. Dato ricavabile dall’alto numero di visite di controllo (talvolta decine l’anno) a cui si sottopone un grande numero di pazienti seguiti.
Nonostante il servizio fornito sia concettualmente semplice da immaginare, l’idea di fornire cure di prossimità nei luoghi dove vivono i migranti ha funzionato talmente bene che diversi enti internazionali hanno deciso di studiarlo come un vero e proprio modello di presa in carico globale. Pensiamo, tra gli altri, alla già citata Organizzazione Mondiale della Sanità, che lo cita tra le migliori pratiche mondiali di assistenza ai migranti, o all’Agenzia del Governo degli Stati Uniti destinata allo sviluppo internazionale, la Usaid, che è stata tra gli enti finanziatori del progetto.
Tra i maggiori punti di forza del modello c’è quello di garantire un servizio di monitoraggio, presa in carico e consulenza medico-sanitaria tra abitanti che vivono isolati, sia geograficamente (spesso i casolari distano decine di km dal paese più vicino) sia socialmente, poiché gli operatori Cuamm spesso sono gli unici italiani con cui interagiscono i lavoratori migranti, mentre le istituzioni faticano anche solo a censire questa popolazione migrante e stagionale.
Il servizio di counseling e orientamento colma anche alcune carenza strutturali delle strutture socio-sanitarie del territorio: l’assenza di protocolli uniformi per gestire migranti nei distretti socio-sanitari, una scarsa fruibilità di ambulatori e sportelli da parte dei lavoratori migranti a causa di barriere linguistiche, culturali ed orari poco accessibili, l’assenza di un database integrato che favorisca una presa in carico costante, la difficoltà di creare relazioni di fiducia continuative tra pazienti migranti e operatori. Negli ultimi anni sono stati sperimentati con successo altri modelli simili nel mondo.
Ad esempio in Bangladesh Cox’s Bazar ospita uno dei più grandi insediamenti di rifugiati al mondo, con una popolazione di migranti Rohingya, qui è stato sperimentato un progetto di Medici Senza Frontiere per portare attraverso cliniche mobili consulenze mediche, vaccinazioni e cibo; in Kenya Croce Rossa invece sta iniziando a sperimentare piccole cliniche mobili negli slum di Mathare e Kibera, mentre progetti simili sono stati avviati anche dal governo Colombiano (“Salute para todos”) e Indiano (“Arise”) nelle favelas di Bogotà e negli slum di Mumbai.
In tutti questi progetti le cliniche mobili rappresentano un elemento fondamentale per portare servizi sanitari direttamente nelle comunità, superando barriere culturali e infrastrutturali, e contribuiscono a ridurre mortalità e morbilità nelle popolazioni di migranti e cittadini bisognosi. Al centro di tutto la necessità di fornire, a chi ne ha più bisogno, servizi socio-sanitari che siano davvero integrati, e che di “sociale” non abbiano solo l’aggettivo accanto al nome.