In continuità con la volontà politica già ampiamente manifestatasi nel corso della legislazione corrente, risale al 6 novembre l’annuncio di Palazzo Chigi rispetto alla firma di un protocollo di intesa tra Italia ed Albania circa la gestione dei flussi migratori.
L’accordo Rama-Meloni prevede la realizzazione di due centri di accoglienza sul territorio albanese, uno presso il porto di Shëngjin e uno nell’entroterra, a Gjadër, da realizzare con fondi governativi italiani e soggetti alla giurisdizione del nostro Paese, nei quali andranno collocati i migranti arrivati via mare. Secondo quando previsto dall’art. 4 del Protocollo, la massima capienza raggiungibile sarà di circa 3000 posti, sebbene sia difficile prevedere l’esatto numero di migranti che verranno ivi collocati, essendo, com’è noto, un dato mutevole nel tempo e soggetto a numerose variabili.
La struttura di prossima costruzione nel porto di Shengjin sarà adibita ad attività di sbarco, screening ed identificazione dei migranti, a mo’ di hotspot; quella di Gjadër, invece, sarà finalizzata al trasferimento di tutti coloro che vengano ritenuti in prima istanza non vulnerabili e non aventi diritto all’ingresso e alla permanenza sul territorio italiano, con finalità di rimpatrio, sul modello dei nostri CPR.
Secondo gli intenti iniziali si sarebbe dovuta raggiungere la piena operatività dei centri entro la primavera dall’anno corrente, ma ad oggi i lavori di costruzione sono ancora in corso. Tale rallentamento è presumibilmente riconducibile alle numerose vicissitudini che hanno circondato l’effettiva entrata in vigore del Protocollo, sia da parte italiana che da parte albanese; si è però conclusa la procedura di aggiudicazione, che ha visto vincitrice la cooperativa Medihospes.
In sostanza, l’accordo Italia-Albania rappresenta l’attuazione di politiche di esternalizzazione delle frontiere ed è stato giustificato dal Governo richiamando “la cooperazione tra stati UE ed extra UE per il contrasto all’immigrazione illegale di massa”. Il Protocollo resterà in vigore per 5 anni, rinnovabili tacitamente per altri cinque, ferma restando la possibilità che una delle parti comunichi la mancata volontà di rinnovo entro sei mesi dalla scadenza (art. 13).
Le preoccupazioni di avvocati e organizzazioni umanitarie: cosa non va nell’accordo Italia-Albania
I punti di criticità di un simile accordo, ma soprattutto delle modalità della sua effettiva applicazione, sono numerosissimi e sono stati immediatamente sollevati dalle principali associazioni ed organizzazione di settore, facenti parte del Tavolo Asilo e Immigrazione, che li hanno riassunti in un appello per la sua revoca.
Uno dei principali focus della controversia ha riguardato la posizione iniziale del Governo, secondo il quale il suddetto accordo non avrebbe necessitato di ratifica parlamentare, poiché in attuazione del Trattato di amicizia e collaborazione tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Albania, con scambio di lettere esplicativo dell’articolo 19, fatto a Roma il 13 ottobre 1995, ratificato e reso esecutivo sulla base della legge 21 maggio 1998, n. 170; tale precisazione, tuttavia, lasciava spazio a numerosi dubbi, poiché l’art. 19 del Trattato in questione chiariva che l’accordo tra Italia e Albania in merito alla stipula di futuri accordi di collaborazione in ambito migratorio riguardasse esclusivamente la migrazione albanese in territorio italiano. Pertanto, è da ritenersi applicabile anche al caso di specie l’obbligo di ratifica parlamentare ex art. 80 Cost., trattandosi a tutti gli effetti di un trattato internazionale, che, in assenza di tale adempimento, risulterebbe non vincolante per il nostro ordinamento, in ottemperanza al disposto di cui all’art. 117 della Costituzione.
Pertanto, dopo le numerose voci che si sono sollevate a sottolineare l’incostituzionalità di tale decisione, nel mese di dicembre 2023 il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge a ratifica del Protocollo, avviando così l’iter parlamentare necessario, conclusosi con definitiva ratifica in data 15/02/2024. L’accordo ha inoltre superato il vaglio della Corte costituzionale albanese, interpellata al fine di verificare che lo stesso non ledesse l’integrità territoriale della nazione, motivo per il quale, ad oggi, sul piano formale nulla osta all’effettivo avvio delle attività.
Sul piano sostanziale, invece, le preoccupazioni rimangono. Ad esempio, il testo del Protocollo non chiarisce in che modo verranno tutelati donne incinte, minori e soggetti vulnerabili (es. vittime di tratta e tortura), i quali dovrebbero essere giocoforza esclusi dall’ambito di applicazione dello stesso ed identificati secondo procedure conformi alla normativa nazionale ed internazionale; tanto è confermato anche dalle parole del Ministro degli Esteri Tajani, le cui rassicurazioni, tuttavia, non sono adeguatamente supportate da previsioni formali contenute all’interno dello stesso Protocollo o nella legge di ratifica, che elaborino una vera e propria normativa di riferimento per lo screening dei vulnerabili nell’esecuzione delle procedure di cui all’Accordo. Inoltre, è altamente probabile che il trattenimento forzato e prolungato avrà conseguenze fortemente impattanti sull’equilibrio psicofisico dei migranti interessati dalla suddetta misura, a prescindere dall’effettiva vulnerabilità pregressa.
Altrettanto nebulosa è la trattazione rispetto all’effettivo esercizio del diritto all’assistenza legale e al diritto alla difesa, che deve inderogabilmente essere tutelato, come statuito dall’art. 24 Cost., e la cui trattazione, nel Protocollo e nella successiva legge di ratifica, presenta aspetti di indubbia problematicità; in primis, in quanto si norma, come regola generale, un rapporto tra difensore e assistito prevalentemente da remoto, ostacolando il consolidarsi di un effettivo rapporto di fiducia tra dette parti. In seconda battuta, relativamente ai procedimenti afferenti al riconoscimento della protezione internazionale, non sono dettagliate le garanzie relative alla partecipazione agli stessi da parte del richiedente, né nella fase amministrativa davanti alla CT né nell’eventuale fase giurisdizionale davanti al Tribunale, in caso di ricorso.
Ancora, si evidenziano potenziali profili di contrasto con la normativa sovranazionale relativa al soccorso in mare, ove le linee guida IMO statuiscono la necessità della “minima deviazione possibile dal luogo ove si è effettuato il soccorso”, oltre che una generale incertezza rispetto ad altri profili rilevanti, quali l’individuazione dell’autorità competente alla convalida del trattenimento, le misure applicabili nei confronti dei richiedenti asilo la cui domanda di protezione internazionale vada incontro ad un esito negativo ecc.
Le precedenti esperienze di politiche offshore: l’esperienza Regno Unito-Ruanda
Il tentativo dell’attuale Governo italiano non rappresenta certo un unicum nel panorama internazionale. Infatti, un precedente importante è rappresentato dall’accordo tra Regno Unito e Ruanda, risalente ad aprile 2022, attraverso il quale si prevedeva l’invio nel Paese africano dei migranti entrati illegalmente nei confini britannici e richiedenti protezione, a fronte di un importante investimento economico.
Tuttavia, in considerazione dei numerosi ricorsi presentati da avvocati ed organizzazioni impegnati in ambito umanitario, finora nessun volo è mai partito in attuazione di questa intesa; infatti, in data 15 novembre 2023, la Corte Suprema del Regno Unito ha sancito l’illegalità dell’accordo in questione, per espressa violazione del principio di non refoulement e, inoltre, riconoscendo l’assenza di garanzie di protezione a tutela dei richiedenti asilo coinvolti nelle misure in esame, nonché la violazione di numerose norme di diritto internazionale. Sul punto, i giudici hanno evidenziato come il Ruanda non possa essere considerato un “Paese terzo sicuro”, anche in considerazione del suo mancato rispetto delle regole di cui alla Convenzione di Ginevra.
Nel recente periodo, tuttavia, il Primo Ministro UK Rishi Sunak ha ripresentato un progetto similare; infatti, il 22 aprile 2024 il parlamento britannico ha approvato una legge (il cosiddetto Rwanda bill) che consente il trasferimento forzato in Ruanda di richiedenti asilo entrati irregolarmente nel Regno Unito. I primi voli charter dovrebbero partire entro l’estate. In questo nuovo testo di legge, il Ruanda viene espressamente identificato come “Paese sicuro” e si statuisce la sovranità parlamentare, dalla quale deriva la possibilità, per il Governo anglosassone, di ignorare eventuali provvedimenti CEDU finalizzati ad evitare i trasferimenti forzati.
Tuttavia, in data 6 luglio il nuovo Primo Ministro UK Keir Starmer ha annunciato la volontà di bloccare nuovamente il piano di deportazione dei richiedenti asilo voluto dal precedente governo conservatore. Pertanto, almeno per il momento il Rwanda Bill sembra destinato a restare un (brutto) ricordo.
Esperienze analoghe si ravvisano in numerosi altri Paesi, quali Australia, Israele e Danimarca, con eguali profili di criticità circa il rispetto dei diritti umani e della dignità dei richiedenti asilo.
In conclusione, in un’annata già particolarmente complessa per gli operatori del diritto e per le organizzazioni impegnate a vario titolo nella gestione dei flussi migratori, si aggiungono ulteriori tasselli di potenziale (se non certa) problematicità, ad ennesima conferma dell’importanza di continuare a vigilare sul rispetto dei diritti fondamentali.